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I vecchi marchi sportivi

  • Alberto Chiumento
  • 20 mar 2019
  • Tempo di lettura: 4 min

Aziende multinazionali, come Adidas e Nike, hanno ormai monopolizzato il mercato degli articoli sportivi, ma la pausa per le nazionali di calcio offre la possibilità di uscire dalla monotona scelta tra “Predator o Tiempo?”, per indagare la situazione di alcuni marchi storici, italiani e non, che oramai vivono all’ombra di questi imperi industriali, ma che gli appassionati sportivi ricordano con affetto e nostalgia.


Il racconto non può che iniziare nel distretto industriale calzaturiero di Treviso, a Caerano di San Marco, dove la Diadora ha la sede dal 1948. L’idea originaria era quella di fare scarponi da montagna, ma la qualità delle scarpe convinse i dirigenti della società a entrare nel mercato dell’attrezzatura sportiva.

Negli anni ’60 stava nascendo il fenomeno del professionismo sportivo e – quelli che oggi chiameremmo direttori marketing - furono abili ad anticipare i concorrenti e nel giro di qualche anno incominciarono a sponsorizzare campioni del calibro di Roberto Bettega e Bjorn Borg, dando così maggiore visibilità alla propria offerta multidisciplinare.


I ricordi più piacevoli di Diadora sono però legati alla nazionale italiana, a cui fornirono il materiale tecnico negli esaltanti mondiali di Italia ‘90 e USA ’94. Intorno agli anni 2000 talenti del nostro calcio, come Francesco Totti, avevano ai piedi le scarpe Diadora.

Non posso quindi descrive a parole la malinconia che mi coglie adesso quando vedo che le Diadora, per quanto in perfetto stile con la loro divisa, le indossino gli arbitri. Pensare che solo qualche anno fa Baggio con quelle scarpette faceva gol da cineteca…


A neanche 4 chilometri di distanza da Caerano, tra Montebelluna e Trevignano, fu disegnata la doppia losanga, simbolo inconfondibile della Lotto.

La società nacque in famiglia, quando i 3 fratelli Caberlotto incominciarono a produrre abbigliamento tennistico nel 1973 e si affermò in breve come leader nel settore, incominciando a vestire il leggendario John Newcombe, vincitore di svariati Wimbledon sia in singolo, sia in doppio.


Data la vocazione per il tennis, solo in un secondo momento la Lotto si dedicò ad altre discipline come atletica e calcio, mettendosi in luce con sponsorizzazioni a sportivi apprezzati come Zoff, Ancelotti e Gullit.

Si rivelarono grandi scelte anche le partnership nei successi del Milan nel 1994 e nella cavalcata fino al terzo posto della Croazia a Francia ’98. La Lotto, inoltre, salì più volte sul tetto del mondo prima con Cafu nel 2002 e poi e con gli azzurri Toni, Perrotta e Camoranesi nel 2006.


Anche se oggi l’azienda è ancora presente attraverso contratti con il Genoa e l’Hoffenheim e giocatori come Koke, il ricordo di quando la doppia losanga decideva le partite con “El Jardinero” Cruz e vinceva il pallone d’oro con Shevchenko lasciano un po’ di amaro in bocca.



Uscendo dai confini nazionali un marchio iconico, che incontra difficoltà a trovare spazio nel mercato molto competitivo di oggi, è Le Coq Sportif, il quale sta provando a cercare nuove strade, come dimostra la recente sponsorizzazione alla Fiorentina.


Eppure la società del galletto, che oggi fatica a cantare (è stata acquisita da Adidas nel 1988), è un vero brand storico dello sport. Nato nel lontano 1882 a Romilly-sur-Seine nella bottega, o per essere più precisi nell’atelier, del cappellaio Émile Camuset, quando questi decise di produrre alcune magliette per dei suoi compaesani che facevano sport. Da quel momento in avanti la società sarà presente col proprio abbigliamento nei momenti sportivi più celebri.


Nel 1929 Le Coq Sportif realizzò indumenti per ciclisti e nel 1939 creò la prima tuta, motivo di grande orgoglio per il marchio. All’epoca, la divisa venne ideata per la federazione francese ed era chiamata “abito della domenica”. Nel 1951 il gallo sportivo divenne fornitore ufficiale della maglia gialla al Tour, vestendo così Coppi, Anquetil, Merckx e Lemond. Ma non solo ciclismo, infatti Arthur Ashe ne vestiva il logo quando nel 1975 vinse Wimbledon e, l’anno dopo, la società fornì la famosa maglia verde alla formazione del Saint-Étienne che la indossò inaspettatamente fino alla finale di Coppa dei Campioni, poi persa.


Molti italiani ricordano con simpatia Le Coq Sportif poiché era sponsor tecnico della nazionale azzurra a Spagna ’82, senza però apparire sulla divisa. Mentre il simbolino era ben visibile sulla maglietta albiceleste a Messico ’86, quando Maradona fece la famosa doppietta all’Inghilterra nel quarto di finale.

Il galletto francese è stato, quindi, un cronista dello sport sin dalla sua nascita.


In Inghilterra un marchio con molta tradizione è la Umbro. Partendo da un piccolo lavatoio a Wilmslow, nella periferia di Manchester, i fratelli Humphreys fondarono la ditta nel 1920 ma, non avendo pronto un nome per essa, decisero di darle il loro appellativo, abbreviandolo. Humphreys Brother divenne così Umbro.


Essa incominciò producendo solo abbigliamento calcistico, come in occasione della finale di FA Cup del 1934 a Wembley, quando fornì le divise, in puro cotone peruviano, a Manchester City e Portsmouth. In breve tempo la società ebbe successo, arrivando a creare le maglie al Brasile del giovanissimo Pelè, che trionfò in Svezia nel 1958.


Ci sarebbero poi moltissime altre storie da raccontare sulla Umbro come il quasi monopolio che ottenne sulle divise del Mondiale inglese del 1966, l’introduzione del tape sulle maniche della maglia quando divenne possibile inserire loghi commerciali sulle divise, le tante squadre di club che ha sponsorizzato nel tempo, lo United del Treble ad esempio, e anche un pallone d’oro tutto inglese come Michel Owen.


In tutto questo, però, l’azienda dei fratelli Humphreys ha presentato la sua prima scarpa da calcio solo nel 1985. Ed è proprio con questo progetto che essa divenne ancora più famosa: la Umbro, infatti, è per eccellenza la scarpa a sei. Quella che tutti i difensori amano e che, per contro, tutti gli attaccanti odiano. I primi non la lavano mai “tanto, pulita o sporca, il suo lo fa!”, mentre chi gioca col 9 o col 10 sulle spalle ne ha sperimentato più volte i tacchetti. Non a caso era Umbro lo scarpino di uno dei difensori più grintosi e tenaci che ci fosse, John Terry.


Quindi, la ditta inglese non dovrebbe incolpare i campi sintetici come responsabili del suo declino? Oramai questi sono diffusissimi e sull’erba sintetica non si possono indossare le Umbro a sei. Così, anche i difensori hanno dovuto incominciare a porsi la domanda “Predator o Tiempo”?








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