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NBA: il solito problema dello show business

  • Alberto Chiumento
  • 16 lug 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 5 ago 2020

La risposta via mail alla lettera del senatore americano Josh Hawley di sole due parole, quelle che tutti conoscono anche senza aver studiato inglese, è costata ad Adrian Wojnarowski, il più influente giornalista NBA, due settimane di sospensione dal servizio (e dallo stipendio). Hawley ha pubblicato sui social l’insulto ricevuto e ESPN, l’importante emittente televisivo per cui Wojnarowski lavora, è intervenuta definendo “imperdonabile” il comportamento del proprio dipendente, diventato uno dei più autorevoli reporter NBA proprio grazie ai suoi rapidi e improvvisi messaggi, le Woj Bombs, con cui su twitter annuncia rumors e trattive di mercato prima di tutti.



Questa la rapida risposta di Wojnarowski, oscurata da me

La replica nasce dalla pungente lettera che il senatore Hawley ha scritto ad Adam Silver, il commissioner NBA, in cui criticava la decisione della lega di obbligare i giocatori a scegliere solo tra un ristretto numero di opzioni il messaggio con cui essi potranno sostituire il proprio nome sulla maglia quando il campionato ripartirà il 30 luglio.


Rimpiazzare il nome con un invito ad un maggiore impegno sociale è stato considerato esagerato ed ipocrita da diversi opinionisti. Inoltre, quando una lega sportiva decide di promuovere campagne a favore dei diritti civili, difficilmente può limitarle quando queste si fondono con messaggi politici. Altrimenti si rischia l’effetto opposto, la censura, come dimostra il divieto imposto dalla NBA sui messaggi pro-indipendenza di Hong Kong, che hanno portato il senatore a dire che “la lega sostiene la libera espressione dei propri dipendenti, ma questa si blocca al limite della sensibilità degli sponsors”.


L’accusa che ha spinto Wojnarowski a rispondere in modo piuttosto colorito (anche se poi si è scusato con l’azienda e con Hawley) sottolinea l’ambiguità con cui l’NBA affronta gli aspetti politici nel proprio business. In patria la Nba si è spesso dimostrata progressista: nel 2014 accettò che i giocatori indossassero nel riscaldamento la maglia con la scritta I can’t breathe, la frase che Eric Garner pronunciò undici volte prima di morire per soffocamento in una situazione gemella di quella di George Floyd.


Sulle questioni sociali cinesi, invece, molti osservatori e politici americani rimproverano l’NBA di essere eccessivamente restia per timore di perdere il ricco mercato cinese, che la lega stima valere più di 4 miliardi. Il rapporto con la Cina è stato abilmente costruito dalla NBA nel corso di 3 decenni ma ha rischiato di interrompersi ad ottobre durante gli NBA China Games. Il Partito comunista cinese ha protestato per un tweet a sostegno della popolazione di Hong Kong da parte di Daryl Morey, il GM degli Houston Rockets, perchè minacciava la sovranità nazionale.


Ne è risultata la cancellazione delle dirette delle partite trasmesse da CCTV e da Tencent, proprietario dei diritti digitali, e l’interruzione dei rapporti con altri sponsor cinesi. L’NBA ha così sofferto ingenti perdite finanziare ma Silver ha gestito con freddezza l’incidente: ha difeso la libertà d’espressione del dirigente NBA e ha accettato le conseguenze del tweet, cercando di ridurne le ripercussioni economiche.


Mentre sull’episodio di Hong Kong gli atleti si sono limitati a dichiarazioni di cortesia, sulla sospesione di Wojnarowski diverse star hanno espresso critiche. Lebron James ha diffuso su Twitter il messaggio #freeWoj, ma nei fatti il fuoriclasse dei Lakers è sulla stessa lunghezza d’onda di Hawley. Non avendo ricevuto l’approvazione per “le cose che aveva in mente”, James ha deciso di tenere il suo nome sulla maglia. L’ennesima dimostrazione di forza e di indipendenza di James, che ha confermato di essere more than an athlete non facendosi vincolare nella scelta di un messaggio.

Tra due settimane il campionato ripartirà, Woj sarà tornato e queste polemiche verranno sostituite dai risultati e dallo spettacolo. Ciò che rimarrà, però, è il vero problema dello show business americano: quando il marketing si traveste in lotta per i diritti civili è molto facile commettere un passo falso.



Foto di Crystal Tay | WSJ


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