Smettiamola di parlare di fuga di cervelli
- Alberto Chiumento
- 30 lug 2019
- Tempo di lettura: 4 min
L’Italia è un paese di emigranti. E’ sufficiente ricordare la storia recente per non dimenticarlo. Gli Stati Uniti erano la destinazione principale prima del 1900, che poi divenne, col nuovo millennio, il Sud America. Chi partiva all’epoca aveva solo una di valigia di cartone, mentre chi abbandona il paese oggi per altre nazioni europee possiede diplomi, lauree o dottorati.
Il fenomeno dei cervelli in fuga è oggi una problematica cruciale che il nostro paese si trova ad affrontare, poiché si ritiene che, diversamente dal passato, l’Italia possa essere in grado di mantenere le sue giovani speranze.
Eppure, ogni volta che sento la definizione di Cervelli in fuga – Brain drain, in inglese – mi accorgo di come si faccia ricorso ad un’espressione anacronistica.
Si può viaggiare in 28 paesi senza bisogno di alcun passaporto. In queste stesse nazioni, le imprese sono libere di scambiarsi merci senza dazi e farraginosi documenti burocratici. E c’è ancora gente, specialmente nel qualificato mondo accademico e dirigenziale, che usa ancora questo termine reazionario.
Solo alcuni mesi fa si temeva che forze populiste e xenofobe potessero scalfire le fondamenta su cui si basa l’Unione Europea. Ma il pericolo è stato sventato come testimoniano i risultati delle ultime elezioni continentali. Quindi, la popolazione europea ha espresso il desiderio di continuare in questo arduo processo di sviluppo e progresso, che non può mai essere dato per scontato.
Il progetto di mobilità studentesca ERASMUS, si inserisce esattamente in questa ottica. I padri fondatori dell’EU intuirono che per creare un’Europa unita fosse necessario educare i giovani. E crearono il programma. Oggi, uno studente polacco non si sente straniero a Barcellona, e un universitario francese non si considera indesiderato in Svezia.
Dietro gli spostamenti educativi non si cela il pericolo di una depersonalizzazione, o ancora peggio, di una omologazione. Ma si plasma una nuova entità sovranazionale. Questi giovani europei sono abituati a pranzare mangiando Paella e a cenare con carne di renna, magari accompagnato da un buon vino francese. Sono accomunati, oltre che dall’insaziabile appetito giovanile, da una singola bandiera: composta da dodici stelle, su sfondo blu.
Anche chi non ha potuto partecipare all’ERASMUS percepisce superflui i confini nazionali, valicandoli frequentemente. D’altronde per molti è normale visitare le capitali europee per un viaggio culturale, oppure, cercando maggior leggerezza, spassarsela sulle spiagge portoghesi o nelle calette greche.
Per quanto si è detto, sarebbe corretto smettere di bollare i giovani che abbandonano il nostro paese come cervelli in fuga, ma è tempo per utilizzare l’espressione “cervelli in condivisione” o “scambio di cervelli”. Le menti brillanti che emigrano non rinnegano il tricolore ma si muovono all’interno di una comunità che permetto loro di farlo in facilità. Che offre loro opportunità e sfide, assicurandogli la possibilità di maturare. E alcune volte, anche di fallire. Questa gioventù colta si mette alla prova all’estero perché sa di avere delle abilità da mostrare ad un continente che l’ha cullata, garantendo pace e serenità.
Coloro che si imbarcavano sui piroscafi 150 anni fa non possedevano alcuna istruzione ed emigravano alla ricerca di fortuna in una nuova terra, che li avrebbe subito etichettati come estranei. Quando addirittura non li avesse respinti. Diversamente da chi salpava all’epoca, i giovani di oggi si trasferiscono per ampliare le conoscenza e sono desiderosi di entrare in contatto con nuove culture. Non hanno paura di essere definiti stranieri o di essere percepiti come indesiderati, perché sono protetti e legati da un vigoroso filo invisibile che si chiama Europa.
E’ facile obiettare a questa tesi affermando che uno stato influente come il Regno Unito sia in procinto di uscire dall’Unione Europea. La scelta fatta il 23 giugno 2016 rappresenta certamente una forte interruzione nel programma di unificazione continentale. Analizzando, però, le radici di questa scelta si deve ricordare come gli anglosassoni siano sempre stati desiderosi di proteggere e affermare la loro indipendenza. Ragione che Charles De Gaulle addusse molteplici volte per ritardare l’ingresso dello UK nell’Unione Europea.
Seppur bizzarra - e inaspettata alla inetta classe dirigente conservatrice britannica – la scelta fatta dal popolo britannico verrà assecondata. Dunque, quale miglior occasione per i rimanenti 27 paesi dell’Unione Europea di serrare le fila, procedere uniti e dimostrare ai sudditi di Sua Maestà la necessità di una coesione europea?
Per molti il progetto di Stati Uniti D’Europa può apparire non concretizzabile, se non addirittura utopistico. Ma è bene tenere a mente che tale percorso è lungo e spinoso per diverse ragioni. In primo luogo gli stessi USA, che possono apparire il modello di riferimento, hanno impiegato diversi decenni per diventare una federazione. Anche passando attraverso anni di sanguinose guerre intestine.
Il territorio europeo, stanco di guerre, necessità lui stesso di tempo per raggiungere l’unificazione. In aggiunta, nel vecchio continente ciascun paese ha una propria cultura ed identità storica, che complicano oltremodo il percorso di unificazione. Mentre gli USA erano all’epoca una nazione senza alcuna radice millenaria.
E’ giusto quindi concedere anche all’Europa il tempo necessario. L’UE è solamente una teenager, che ha spento solamente 62 candeline. Prima ancora di affrontare reali e complessi problemi comunitari, come la lotta al terrorismo, l’unione bancaria e una politica condivisa sull’immigrazione, si deve smettere di parlare di cervelli in fuga. Entrare nell’ottica di una condivisione di cervelli e scambio di neolaureati sarebbe il primo passo, assolutamente non banale, per proseguire ad ampie falcate nel percorso di un’Europa unita. E i giovani ce lo ricordano ogni giorno.

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